giovedì 2 dicembre 2010

Obey, ☮ & Revolution

Il Post di approfondimento di oggi è stato estrapolato da un mio articolo dello scorso giugno, pubblicato sul webzine Art a Part of Culture per cui collaboro dall’aprile 2009. Mi pare opportuno parlare di un artista che ha individuato la pericolosità del cosidetto “Fascismo immateriale”, il plagio del pensiero e l’induzione di bisogni indotti che ci rendono schiavi di un grande fratello e perfettamente omologati.

Et voilà:

Frank Shepard Fairey, meglio conosciuto come Obey, è un artista contemporaneo americano.
La sua produzione artistica in serie inizia nel 1989 sui muri di Rhode Island, per poi diventare un vero e proprio fenomeno globale. Oggi, dopo quattordici arresti, diversi processi e fughe a perdifiato, Shepard Fairey è uno degli street artist e designer più quotati degli Stati Uniti, le cui opere sono esposte in prestigiose collezioni museali, come il New Museum of Design di New York, il San Diego Museum of Contemporary Art, il Museum of Modern Art di San Diego e il Victoria & Albert Museum di Londra.

Classe 1970, Fairey, comincia a disegnare i primi stencil e adesivi punk per skateboard alle scuole superiori, fino a quando rivaluta il concetto stesso di adesivo, inteso come mezzo di espressione personale, anziché modo di rappresentare una band, un’azienda o un movimento.
La sua esperienza artistica inizia con la produzione del suo primo sticker, dedicato ad Andre the Giant, lottatore di wrestling di origine francese, in quel momento all’apice della carriera: il suo volto è trasformato rapidamente in un ritratto stilizzato, è Andre The Giant Has a Posse, corredato da un’inquietante scritta in stampatello “OBEY”.
Nel manifesto redatto nel 1990, Fairey spiega la campagna sticker OBEY come un esperimento di fenomenologia heideggeriana, che consiste nel lasciar che le cose si manifestino nella pura ontologia dell’essere, consentendo alle persone di vedere chiaramente ciò che è davanti ai loro occhi. L’adesivo non ha alcun significato in sé, ma esiste solo per indurre la gente a reagire e a ricercare un senso nella vignetta; le diverse reazioni e interpretazioni degli osservatori riflettono la loro personalità e sensibilità. La campagna Obey Giant entusiasma anche critici d’arte: il newyorkese Carlo McCormick, la collega allo strapotere della pubblicità:

“Viviamo in un mondo sovraccarico di pubblicità. Non c’è modo di evitarle quando cammini per strada. [Obey Giant] ti dice di comprare e obbedire, ma non sai che cosa comprare o a chi obbedire. Funziona al livello elementare di catturare l’attenzione delle persone e fargli chiedere cosa sia un segno. Una volta che inizi a chiederti cosa sia quel segno, allora forse puoi iniziare a mettere in discussione tutti i segni”.

Palese ed inquieta fonte d’ispirazione di Obey è il film cult They Live di John Carpenter, in cui il protagonista, tramite degli occhiali speciali, riesce a decodificare i cartelloni pubblicitari che contengono messaggi subliminali.


“Ho creato il progetto Obey per costringere le persone a confrontarsi con se stesse. Ho l’impressione che molti non capiscano che nella vita agiscono come individui obbedienti e disciplinati. Forse i miei poster possono farli riflettere sulla loro condizione. E molti potrebbero non tollerare questa cosa.”

Inevitabile intravedere un senso politico e sociale nelle parole e nelle azioni di Obey. Impegno politico che è diventato palese nel 2008 quando Fairey crea la serie di posters in supporto alla candidatura di Barack Obama, inclusi i ritratto-icona HOPE e PROGRESS, considerati dal critico d’arte Peter Schjeldahl “i manifesti politici più efficaci in USA dai tempi di Uncle Sam Wants You’”.



Nonostante la legittimazione da parte del sistema dell’arte ufficiale, con mostre in musei e gallerie, nonché la realizzazione di merchandising commerciale, l’intento di Obey resta quello di essere spunto di riflessione sociale, innescando la consapevolezza collettiva. Ne è una prova la sua recente partecipazione al progetto www.artistsforpeaceandjustice.com i cui proventi ricavati dalla vendita delle opere vanno a supportare le opere di ricostruzione per il terremoto di Haiti.

Per chi è interessato a leggere l’articolo completo, ecco il link: obey-di-emiliana-mellone

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